“Libera Europa” è una organizzazione di persone che ritengono che la prospettiva di un’unione politica europea, di un superstato con capitale Bruxelles, non rappresenti l’ineluttabile destino e nemmeno il compimento più naturale della vicenda continentale.
Piuttosto il progetto dell’Unione Europea rappresenta il tradimento dello spirito profondo di un continente che ha dovuto la sua fortuna storica proprio alla sua straordinaria pluralità istituzionale e culturale.
Pur con differenze tra epoca ed epoca, il modello europeo è stato un modello policentrico di convivenza e competizione di sistemi normativi diversi. Per secoli l’Europa è stata un continente “globalizzato” di piccoli paesi e di città stato; e per secoli artisti, inventori, banchieri e mercanti hanno sperimentato il potenziale di un’area economicamente e culturalmente integrata in una cornice istituzionale decentralizzata.
Solo in tempi più recenti questo modello ha cominciato ad essere messo in discussione, tanto che il ventesimo secolo ha visto lo scontro tra chi aveva una visione ideologizzata ed “unificante” dell’Europa, mirante a distruggere la sua pluralità istituzionale, e chi invece voleva preservare un’Europa delle democrazie e delle diversità.
La minaccia dei grandi totalitarismi del secolo scorso – il comunismo ed il nazismo – è stata sconfitta, ma il progetto dell’Unione Europea rischia oggi di essere l’ennesimo tentativo di sottomettere l’Europa ad un singolo governo artificiale dove la distribuzione degli incarichi serve ad assicurare la necessaria parvenza di equità e di pluralità.
Si tratta di un progetto pericoloso che, anziché contribuire ai buoni rapporti tra i popoli, rischia di generare tensione ed inimicizia, come già oggi possiamo rilevare per effetto delle dinamiche innescate dall’unione monetaria.
Vediamo che da un lato i cittadini del Sud Europa stanno diventano sempre più ostili alla Germania ed ai paesi del Nord perché li accusano di voler “imporre l’austerità”. Dall’altro i cittadini dei paesi settentrionali stanno diventando più insofferenti di fronte al fatto che i loro soldi vengano utilizzati per “salvare” la Grecia ed altri paesi dalla finanza “disinvolta”.
Continuando su questa strada gli attriti rischiano di arrivare a livelli preoccupanti che sarebbero impensabili tra nazioni occidentali “indipendenti” come il Canada e gli Stati Uniti, l’Australia e la Nuova Zelanda o la Svezia e la Norvegia.
L’Unione Europea non serve gli interessi dell’Italia. Il nostro paese è uno dei maggiori contribuenti netti al budget europeo; questo vuol dire che mandiamo a Bruxelles più soldi di quelli che ce ne tornano indietro.
Tuttavia, non è solo una questione di bilanciamento quantitativo. Il nostro obiettivo non è quello di chiedere a Bruxelles più denaro o più tutele per far tornare i conti.
La vera questione, infatti, si esprime in termini di bilanciamento qualitativo. I soldi che noi consegniamo all’Unione Europea sono sottratti a tutta l’economia produttiva attraverso le tasse che i contribuenti pagano. Quello che ci torna indietro – i cosiddetti “fondi europei”- invece è sotto forma di sussidi discrezionali, distribuiti secondo le preferenze di politici e burocrati.
In quest’ottica rafforzare l’Europa politica e quindi la quantità di risorse intermediata da Bruxelles vuol dire cedere gradualmente la nostra autosufficienza economica in cambio di aiuti europei politicamente controllati.
Lo scenario sarà quello di un’Italia sempre più in declino, ma ammansita dagli eurocrati attraverso sussidi da noi stessi finanziati.
Una delle argomentazioni più ricorrenti a favore del progetto di unione politica e monetaria è stata che far parte dell’Europa e dell’Eurozona avrebbe reso possibili alcune riforme strutturali che gli italiani non sarebbero riusciti a fare da soli.
Dopo 12 anni di moneta unica possiamo affermare che tale argomentazione si è rivelata totalmente infondata. L’Euro ci ha regalato un “decennio perduto” di “status quo”, durante il quale i bassi tassi di interesse e la percezione di essere ormai dentro una cosa “troppo grande per fallire” hanno diminuito drasticamente l’urgenza di cambiamento e quindi il sostegno a riforme di innovazione politica ed economica.
Malgrado i mali conclamati del modello economico italiano, la convinzione di alcuni che la via più efficiente per le riforme passi dal governo paternalistico di un’élite di “saggi” europei non è solamente sbagliata, ma è anche dannosa. Nessun percorso di rinnovamento sarà praticabile se esogeno, eterodiretto e slegato dall’effettivo consenso dei cittadini.
Persino policy di buon senso, quali ad esempio l’adesione a basilari principi di responsabilità di bilancio, perdono credibilità nel dibattito politico se vengono percepite come imposte dall’esterno, mentre all’opposto guadagnano fascino e consenso soluzioni populiste che si intestino la difesa dell’interesse nazionale contro l’interferenza straniera.
Nei fatti, il nostro euroscetticismo non è sommabile a quello di coloro che vogliono liberarsi dai vincoli di Bruxelles per sostenere attraverso politiche inflazionistiche livelli indefiniti di spesa pubblica. La verità è che costoro non cercano la secessione dall’Unione Europa, bensì una dissociazione dalla realtà e dalle leggi fondamentali dell’economia.
Noi crediamo, al contrario, che in assenza di “paracadute” europei, sarà ancora più necessario per chi ci governa competere con gli altri paesi sul terreno dell’affidabilità, dell’accountability, del contenimento della spesa pubblica e dell’utilizzo parsimonioso ed efficiente dei soldi del contribuente.
Neppure il nostro euroscetticismo è sommabile a quello di coloro che sognano una chiusura localista contro il libero scambio ed il mercato. Rimanere fuori da un grande superstato non vuol dire essere più chiusi verso l’esterno, anzi, se ci guardiamo intorno, vediamo che in molti casi sono proprio i paesi più piccoli ad essere da decenni quelli più globalizzati. La nostra visione è inequivocabilmente quella di un’Italia più, non meno, presente nell’economia globale di oggi.
Crediamo nelle virtù del libero mercato e dell’economia aperta. Sosteniamo fortemente il concetto di mercato unico europeo, perché la possibilità di far circolare capitale e di scambiare merci è un fattore fondamentale di sviluppo economico.
Il mercato unico, tuttavia, non presuppone un’unione politica, anzi funziona molto meglio in assenza di essa. Un’entità statuale paneuropea serve proprio a controllare e regolamentare il mercato unico rendendolo sempre meno libero.
Non stupisce come molto del lavoro degli eurocrati consista proprio nel tentativo di armonizzare il continente dal punto di vista fiscale e normativo, in modo da eliminare quegli aspetti di mutua “concorrenza” tra sistemi che finora hanno contenuto la voracità degli apparati fiscali. In altre parole se l’Europa sarà governata da un governo “monopolista” esso avrà sostanzialmente mano libera nell’imporre tasse e nell’intervenire in modo dirigista in materia economica.
Per le ragioni contenute in questo manifesto, “Libera Europa” si batte per lo smantellamento della sovrastruttura burocratica rappresentata dall’’Unione Europea e lavora per la prospettiva di un’Europa che riparta dal basso e che ricostruisca forti relazioni economiche e culturali tra gli Europei, in una cornice di mutua indipendenza, libero scambio e relazioni bilaterali.